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Ivanovo DetstvoCome vi raccontavo prima, riporterò su questo blog alcune interviste a professionisti con cui ha lavorato il regista russo Andrej Tarkovskij. Ho trovato nel libro di Maya Turovskaya “7 ½ o i film di Andrej Tarkovskij” l’intervista a Vadim Yusov, cineoperatore dei film Katok i skripka, Ivanovo Dedtstvo, Andrej Rublev e Solyaris.[1]

Eccola tutta intera a voi, una traduzione dal russo …

Vadim Ivanovich, Lei ha iniziato a lavorare con Andrej Tarkovskij per Katok i skripka ancora a VGIK?

No, lui si diplomava a VGIK, io invece, lavoravo. Mi ha contattato dopo che ha visto un mio lavoro. È venuto insieme ad Andrej Konchalovskij e mi ha detto: «Ho visto le sue immagini e credo che potremmo … »

Per me è stato abbastanza sorprendente. Non sapevo ancora  cosa aspettarmi da un giovane con i capelli come un riccio. Ed ecco, ora ci manca una collaborazione artistica come quella che aveva Andrej nel sangue.

Non accontentato – questo è il termine usato tante volte dalla persona insicura. Ogni volta che si decidevano le cose, si parlava, si sistemava tutto, eravamo tranquilli, pronti ad iniziare il lavoro, Andrej si fermava di nuovo e si domandava: «Sai, ma se facciamo ecco, in questo modo … ». Ed anche se si sbagliava, provava tutte le soluzioni, iniziava tutto da capo e si faceva una cosa tutta nuova.

Nel periodo quando si diplomava, Andrej era pieno di insicurezze, e nello stesso tempo si rafforzavano le sue decisioni, credo che questo è durato fino alla fine del film Ivanovo Dedtstvo, quando i suoi impulsi e il potere di decisione si sentiva dallo schermo.

Mi è difficile analizzarlo, probabilmente, nel seguente lavoro è partito con meno incertezze.

Con Solyaris si è avvicinato ad un risultato di un processo cinematografico, come le discussioni, le decisioni, cioè si è perso meno tempo per le conversazioni al tavolo e si decidevano le cose direttamente sul set. Questo significa che ci capivamo a vicenda, soprattutto sono io quello che avevo imparato a capirlo.  Da questo rapporto dipendeva il nostro processo lavorativo, che caratterizzava Andrej come regista e persona. Se nel periodo del diploma, il primo film non aveva tanta fiducia in se stesso, allora nei prossimi film è diventato più sicuro e i lavori diventavano più forti degli altri.

Continuava invece ad essere insicuro sulle sue capacità artistiche, e queste insicurezze provocavano solo la nervosità.

Vadim Ivanovich, siamo arrivati a Solyaris, torniamo al Ivanovo Dedtstvo. Il film per Andrej Tarkovskij in gran parte è un enigma.

E non soltanto per lui, anche per tutti noi. Ricordo quando si lavorava alla nuova sceneggiatura insieme a Papava e Bogolomov.

Ad Andrej piaceva tanto il racconto Ivan, soltanto che aveva chiesto alcune modifiche, da un punto di vista cinematografico. Uno dei momenti più importanti nella sceneggiatura sono stati i sogni, che non c’erano scritti nel racconto originale, e che sono stati resi possibili soltanto nel film. Mi ricordo anche del libro Frontovie Zapiski (Lettere dal fronte) di Effendi Kapiev, un’opera stupenda della letteratura di guerra, dove le singole frasi illustravano un campo esteso. Avevamo bisogno di leggerlo per capire bene l’atmosfera. Tra l’altro, la nostra generazione non era lontana dalla guerra, a quel tempo eravamo anche noi dei piccoli Ivan, quindi era assolutamente necessario a capire bene l’atmosfera. Bogolomov invece non poteva saperlo meglio di noi (Bogolomov era nato nel 1924).

Si ricorda come avete girato la scena quando Ivan attraversa la foresta? Per me è uno dei episodi cinematografici più convincenti del film – è una foresta allagata.

Tra l’altro è uno dei momenti più interessanti di tutto il film, probabilmente, da qualche parte si è già parlato.

Il fatto è che la storia è stata scritta con molta precisione, tenendo in considerazione dei dettagli reali della guerra, ma secondo le nostre circostanze cinematografiche non era affatto vincenti.

Nella storia, i tedeschi erano sulla riva alta e noi su quella bassa; in realtà era proprio così, la riva destra del Dnerp è alta, la sinistra è più bassa.

I nostri stavano in realtà nella palude, e questo fatto rendeva il lavoro ancora più difficile, perché bisognava attraversare il Dnepr nell’acqua, ed è possibile farlo soltanto di notte, nel buio assoluto.

Però gli strumenti cinematografici, gli requisiti di espressione cinematografica  sono tutt’altra cosa. Sicuramente, potevamo far finta di usare qualche luce convenzionale.

A proposito, avevo visto le prime tentazioni di Ivanovo Dedtstva (sapete che prima c’era un altro regista), anche loro sono andati sulla stessa via come noi. Quindi eravamo un po’ preoccupati per non fallire.

Operativamente, capivo che risolvere il problema della nostra scena in un modo plastico non avrebbe andato bene sullo schermo. Allora, bisognava trovare un modo proprio, per far sembrare il passaggio segreto e nello stesso tempo anche aperto per lo spettatore: quindi erano necessarie delle coperture, finzioni che permettono  di essere visibili e allo stesso modo invisibili. In questo consisteva il nucleo del problema.

È vero, abbiamo ripreso anche noi la notte, frammenti di buio assoluto, però questi momenti servono per esprimere il bosco morto.

Poi, non saprei se si tratta di una fortuna o un successo che risponde a tutta questa energia che avevamo, la preoccupazione, il desiderio di compiere il lavoro. Però una volta, ancora all’inizio della spedizione, siamo andati, già sapevamo che dovremmo riprendere in quei posti, però non si sapeva in quale modo, e dal pullman ho visto all’orizzonte quel bosco morto. Ho detto ad Andrej: “Dai, andiamo a vedere”. Non so in quale modo, abbiamo trovato la strada fino là. Si è rivelato che il kolchoz (una azienda) ha costruito una diga per allevare le anatre, ma il terreno è crollato e così è stato allagato una buona parte del bosco, che in poco tempo è morto. Era di un incredibile consistenza, in più c’era anche l’acqua, coperta in piccoli parti di lenticchie.

Per noi, e ovviamente non per il kolchoz, era un vero regalo del destino. Abbiamo dovuto cambiare però qualche testo nella sceneggiatura. Ma per la colpa di Bogolomov, per piccoli cambiamenti della sceneggiatura, si doveva aspettare la conferma da Mosca. Abbiamo inviato tutte le modifiche e abbiamo spiegato la motivazione per cui è stato cambiato il luogo di ripresa, ottenendo – ricordo bene questo – un documento sigillato che ci è stato permesso di eseguire il lavoro.

Secondo Lei, che cosa differenziava Andrej Arsenijevich dagli altri registi in relazione con gli operatori?

Ho avuto la fortuna di lavorare con diversi registi e persone interessanti. Ma ovviamente, con Andrej … nonostante il rapporto che abbiamo avuto dopo, direi che sono molto fortunato ad incontrare nella mia vita un regista come Andrej Tarkovskij, uno che era sempre in cerca incessante della realizzazione visiva delle sue aspirazioni, un’incarnazione attraverso l’immagine.

Per questo considerava il lavoro dell’operatore molto importante. Quindi era molto esigente, ma nello stesso tempo sperava e sapeva la sua posizione.

Mi ricordo una scena di Andrej Rublev, quando i pittori-monaci scendono nel campo, con la schiena alla macchina da presa, allora lì dovevano essere due cavalli e l’amministrazione non gli ha forniti.

Non era uno capriccio, ma non volevo che fosse una natura solitaria, consideravo che dovrebbero essere un cavallo con il carro e un altro libero al pascolo, come segno di avvicinamento al cuore umano. Io mi sono rifiutato di riprendere e Andrej mi ha sostenuto. Non mi ha detto: “Dai, giriamo, chi se ne importa!”. Andrej non era un tipo così.

Ecco, quanti compiti del genere c’erano anche per Ivanovo Dedtstvo. Oggi, certo, ci sono dei skycam, dolly e varie tecnologie che permettono alla macchina da presa ad alzarsi. Noi invece  ci siamo inventati dei modi per far scivolare la mdp e ottenere un’immagine fluida. Ovviamente, tutti noi desideriamo che la mdp volasse, che seguisse il movimento della mente, però sul set è sempre la questione di praticità.

Per esempio, ci siamo inventati un modo di ripresa nella scena in cui Holin bacia la Macha sulla trincea. La mdp  riprende dal fondo della trincea, praticamente da sotto terra, muovendosi fino al livello dello sguardo umano, quasi sulla trincia.

Considero che non ha niente a che fare con la tecnica, ma con il modo libero di seguire gli attori, c’è un tipo di sensazione sensibile del movimento nello spazio.

Ogni tanto, lo spettatore è interessato anche alla tecnica di ripresa, però per Andrej era diverso, il significato è più forte della tecnica, sembra di essere assorbito.

O, per esempio, il momento del volo di Ivan nel sogno e poi la rapida caduta al pozzo …

Il motivo del volo – uno dei motivi di Andrej Arsenjevich. A me sembrava però, che proprio nel Ivanovo Dedtstvo è rimasto soltanto sulla carta …

Non è proprio così. Forse non è stato espresso come era scritto, però è stato girato: ho ancora lo scritto del lavoro con la mdp e la proiezione di questo strano momento tecnico.

Credo che è stato introdotto anche nei libri di scuola di cinema per l’arte dell’operatore, il modo come l’abbiamo effettuato.

La mdp volava sopra il pendio della montagna: si vedevano le cime degli alberi in primo piano, la mdp guarda in basso, quindi il cielo non si vede, soltanto l’orizzonte e la figura piccola della madre, e poi l’avvicinamento rapido al pozzo e lo spruzzo d’acqua – ecco, questo è il volo.

Un altro frammento del volo è stato ripreso con Kolya Burlyaev, che sembrava a posizionarsi: un piccolo movimento, rotazione – l’espressione plastica del volo, poi si sale avendo come sottofondo gli alberi. Lo stesso movimento è stato usato più tardi in Solyaris.

Bisogna dire una cosa. Con tutte le richieste, nonostante il fatto che Andrej era Andrej, non ha mai dato slancio al lavoro collettivo. Altri registi, anche quelli meno importanti, fanno così: l’operatore fa la sua proposta, anche due, poi la terza e la qualifica. Con Andrej era diverso, l’operatore o l’artista poteva proporre la sua, e al primo posto non era la vanità, la reputazione, ma le sue capacità di vedere nella proposta se sarebbe utile per il film. Così è stato con me e con Misha Romadin, lo scenografo. Avevamo una sorte di accordi, anche senza parlare uno con l’altro. Quindi accettare sempre quello che è assegnato agli altri, anche se non sei al corrente: “A, Misha ha detto questo? Allora va bene”. Considero che in un collettivo artistico così deve essere.

Se proponevo qualcosa ed ero convincente, allora Andrej accettava e si effettuava.

E questo anche nonostante il suo carattere difficile?

Era difficile in un altro senso. Per spiegare la questione, convincerlo se ero veramente io convinto, allora non era difficile, però psicologicamente era sgradevole. Nel processo creativo raramente si arrivava alla confidenza.

Per esempio, un caso, forse strano, che ricordo bene. Nella scena di Andrej Rublev con la campana c’era nella sceneggiatura questo testo: «come il coltello entra nel grasso, così la pala nel terreno» e poi «è andato il giorno al tramonto»,  «non si vedono più i lavoratori nella fossa».

Ed io indico il momento della ripresa (era la mia responsabilità per indicare il tempo della ripresa). Arriva lui spensierato e mi dice: “Vadim, perché abbiamo adesso le riprese?”.

– Come perché, «non si vedono più i lavoratori nella fossa».

– No, intendevo, che non si vedono dall’alto.

– Ma «è andato il giorno al tramonto»? Avevo pensato, ecco anche il sole è andato al tramonto, inizia a diventare buio e loro stanno ancora e lavorano, scavano.

– No, avevo pensato diversamente. Però non annulliamo le riprese, facciamo la tua.

Abbiamo girato esattamente come avevo immaginato io: la vista dall’alto nel crepuscolo. È stata la messa in scena della ricerca di argilla nel Andrej Rublev. Non direi che la scena era molto artistica, però la messa in scena, i movimenti, quello che c’era intorno hanno reso una bella immagine.

Tutti parlavano, ma io e il regista Igor Petrov  abbiamo sistemato la macchina da presa pronta per riprendere e dico: “Andrej, noi siamo pronti, se vuoi vieni e guarda in camera?”. Lui stava a 50 metri di distanza, si è girato e mi ha detto: “Riprendi da solo”. Così e non è venuto.

Questo non era un solo caso. Ogni tanto lo obbligavo e lo pregavo per guardare in camera: “Andrej, ti chiedo per favore …”. Non succedeva spesso, però succedeva. A volte non volevo prendere la responsabilità che non mi riguardava, mi capisce … Però Andrej si fidava dell’operatore.

Un altro esempio è la scelta della natura. Ecco, per la scena del buio io avevo nella mente un quadro così: il bosco senza sottobosco, tronchi scuri di alberi – e Andrej era d’accordo con me. Ho sofferto a lungo perché non riuscivo a trovare il bosco adatto e quello che ho trovato alla fine era quasi quello che volevo, ma non era ideale, non era perfetto.

Per quello che riguarda le sue decisioni, ogni tanto dovevo compiere quelle di Andrej, anche se non gli comprendevo, vedevo dalla sua espressione che ha assolutamente bisogno.

Ho raccontato in una rivista quello che è successo sul set in Vladimir quando Tarkovskij ha portato due oche.

La città viene catturata, giù nel cratere vanno le turbine, i tartari cacciano le persone, e lui si era messo in alto e buttava queste oche per poter riprenderle rapidamente. Non riuscivo a capire, a cosa servisse questo, nessuno le guardava, e le oche sono come i ferri da stiro. Però le ho ripreso, così come lo voleva. Questo è stato un momento di improvvisazione, che spesso succedeva.

Invece, sullo schermo, probabilmente per l’effetto rapido, le oche un pochino aleggiavano. Ho osservato che questo effetto trasmettesse qualche sensazione …

Certamente, sono singoli esempi, ma quello che voglio dire è che Andrej si fidava del lavoro che faceva l’operatore, e io mi fidavo di lui, nonostante era tutto per noi inseparabile e non c’era l’ambizione, perché per lui la cosa più importante era l’essenza. Anche se c’erano dei disaccordi, delle polemiche.

Per esempio, all’inizio di Andrej Rublev,  a lui piaceva tanto il film di Kavalerovich, Mati Ioanna ot anghelov – una composizione della croce e tutto quanto.

A me invece, al contrario, mi sembrava molto artificioso, inverosimile il film e ci siamo contrati a lungo. Per poi lui mi ha detto: “Sei un uomo grigio”. Io non ho negato, va bene, non ero una persona così colta e educata come lui, avevo quella educazione, che non mi permetteva di sapere tutti quei brani che lui conosceva. Ed io mi sono basato sulla mia intuizione, che poi sullo schermo si è tutto avverato. Posso dire che non mi ha mai fatto riprendere per la seconda volta qualcosa, e questo significa che gli andava bene quello che facevo.

Avevate delle opzioni?

Non avevamo altri opzioni e non le concepisco ne anche. L’opzione è il dubbio della decisione giusta, allora significa che devi pensare ancora finché non trovi l’unica decisione.

Non lo so, mi ha educato lui o forse l’ho educato io, ma non abbiamo avuto delle opzioni, al massimo delle doppie scene. Facevamo massimo cinque, normalmente tre per ogni scena, altre volte soltanto una quando non bastava la pellicola.

Mi  ricordo una volta che sono andato da solo a riprendere alle 4 o 5 di mattina il passaggio Kris vicino alle querce per il film Solyaris.  Riprendevo con una kodak. Non dovevo svegliare Andrej, l’inquadratura era semplice: l’attore doveva passare in un campo lungo – non era regia – si trattava soltanto di uno stato d’atmosfera.

Per sembrare il passaggio molto lungo abbiamo usato due attori: Banionis e un cascatore. Attraverso i cespugli era impossibile passare, per questo Banionis si è avvicinato a noi, poi dall’altra parte al nostro segno è uscito l’altro attore. La scena è chiara, abbiamo ripreso molto bene, abbiamo fatto un soltanto ciak.

Gli assistenti per sbaglio hanno dato la kodak per sviluppare semplicemente la pellicola e la scena è stata rovinata. Eravamo costretti di ripetere la scena, quindi abbiamo fatto un’altra ripresa.Anche se i due ciak non sono uguali, c’è qualcosa di buono da scegliere.

Possiamo dire che Andrej Arsenjevich girava i film da un punto di vista del montaggio?

Allora, il montaggio è una cosa …

Sappiamo tutti Ejsenchteyn, alcuni registi dell’occidente … Penso che per Andrej non faceva alcun riferimento i brevi pezzi ritmici che si scontravano nel montaggio. Lui non aveva il dono del montatore. Prendendo in considerazione i suoi film, tutte le scene sono dei lunghi pezzi dove si realizza il montaggio. Ecco perché bisogna mettere una fine esatta. All’interno di un lungo pezzo devono essere dei punti deboli, altrimenti scatta la monotonia. Qui è più difficile costruire all’interno della scena delle basi ritmiche.

Così era per Andrej Rublev, la sceneggiatura era abbastanza lunga, non si adattava all’interno del repertorio visivo, e Andrej non aveva a che fare con i tagli, ha voluto girare tutto quanto.

Quindi, abbiamo fatto un discorso in Vladimir, era arrivato anche Andron, un altro autore della sceneggiatura: professionalmente, consideravo che non abbiamo ne tempo, ne pellicola per riprendere tutto quanto per poi scegliere i pezzi che servono. In questo modo è impossibile lavorare, dobbiamo decidere adesso, se no sarà due, tre volte più lungo; cinque forse ottocento metri di pellicola.

Andrej ha detto: “Fate come volete, ma io non taglierò”.

È stato un processo massacrante. Avevamo le riprese, nello stesso tempo Andron cercava i pezzi scritti che probabilmente Andrej le aveva buttato e non si ricordava – quindi era una lotta continua, mi sentivo già lontano da questo lavoro. Ora non ha più importanza. Però l’idea era questa, girare tutto per poi scegliere. Per Andrej era molto importante, io invece ero colpito – guardare senza pausa lo schermo in questo momento e non sostituire alcuni momenti nella fase di montaggio. Quindi, il montaggio andava qui.

Ci sono stati dei momenti che giravamo un periodo di tempo e al tavolo di montaggio si riduceva. Questo non è necessariamente considerato un errore: non si può creare un piano concettuale ideale per realizzarlo in totalità; però Andrej cercava di raggiungere questo ideale.

Nel Solyaris, ho inventato tecnicamente un modo di girare: la mdp poteva scivolare a lungo nel corridoio, fare un movimento perpendicolare e poi tornare indietro. La mdp poteva colpire da sola la continuità, nonostante la complessità del movimento. Tutta questa meccanica era necessaria soltanto nel contesto del comportamento umano, e qui non ha trovato la precisa giustificazione drammaturgica. Sullo schermo non vedrete questo scivolamento della camera, perché siamo stati costretti a rinunciare in grande parte.

Certo, anche il più lungo pezzo è stato girato nel modo per collegarsi con l’altro, l’importante è però quello che c’è dentro nei pezzi dei filmati.

Per esempio, Andrej in realtà non utilizzava la stima dell’impatto sullo spettatore, mentalmente, è un’altra cosa, non saprei …

Allora, nel Ivanovo Dedtstvo c’è la scena prima che lui va a esplorare il territorio dei nazisti. Il grammofono suona “Non le è dato a Masha andare al fiume”;

Katasonich ha riparato il grammofono, e lui è già stato ucciso, però noi non sappiamo questo, anche se possiamo indovinare, invece Ivan non può saperlo. Come ingannare questa ipotesi dello spettatore, che cosa ha ucciso Katasonich?

Andrej ha fatto così:

Ivan chiede dov’è Katasovich  e gli si risponde: “È stato chiamato”; “Ma come, lui mi ha promesso che viene”. E nello stesso tempo entra Katasovich nel campo lungo, scende per le scale e cammina dietro a una colonna.

Dietro dalla colonna vediamo un altro attore, in un campo medio. Quindi ci è sembrato che era Katasovich, che lui era vivo …

Certo, questa è aritmetica, il fatto della ragione.

Perfetto! E proprio quello che considero “il film come poesia”. Non è aritmetica, ma una tecnica ausiliaria, come sarebbe l’assonanza del rima nel posto del pieno … Quindi Vadim, ci dici alcune parole sull’uomo Tarkovskij?

Allora, Andrej era una persona strana; strano non significa non comprensibile, ma per alcune azioni e inclinazioni lo era.

Non c’era tanta differenza di età tra noi due, eravamo quasi coetanei. Non dico che era un momento di maturità, però non so perché mi sentivo più grande di lui. Da un punto di vista della vita e dell’arte. Difficilmente aveva dei rapporti con le persone, mi sembra che non desiderava avere nuove conoscenze, nuove amicizie. E nello stesso tempo era molto fiducioso, anzi troppo. Credo che in queste amicizie ogni tanto si perdeva e si fidava troppo. Era anche indifeso, senza protezione, dal punto di vista della vita, per esempio.

E nello stesso tempo aveva interesse per costruire il suo ufficio, sistemarlo dopo i suoi gusti: ecco qui la sedia, lì la luce; non era indifferente per quello che si doveva fare: appendere un filo, una corda, le perline – ho visto come è nato questo interiore.

Io non l’ho giudicavo, però a me sembrava allora una debolezza, un gioco da bambino – versare una candela, per esempio.

Probabilmente, lui passava tanto tempo a casa, io invece con la mia professione sono sempre fuori, non riesco a fare ne anche le cose necessarie. Per lui invece questa estetica era assolutamente necessaria.

I vestiti avevano un’importanza maggiore per Andrej, ed anche le possibilità erano più che modeste. Non era indifferente per la scelta delle camicie, le scarpe, poteva mettersi sulla testa una fascia per raccogliere i capelli ribelli.

Quando ci siamo incontrati a Milano e ho preso la sua manica del capotto ho capito che tipo di capotto era. Io l’ho conoscevo in un modo diverso: con una giacca imbottita e stivali sul set. Anche prima era molto elegante. Era sempre un piacere vederlo.

Tra un film e l’atro potevamo non  vederci per tanto tempo. Lui spariva, a quel tempo faceva una vita diversa. Mi ricordo dopo Ivanovo Dedtstvo, è andato all’estero, poi io non l’ho cercato e dopo è tornato con il premio veneziano “Il leone d’oro” e mi ha detto: “Starà meglio da te”. Lo giravamo, lo guardavamo se veramente era d’oro. Un vero circo!

Poi quando si parlava di un altro film, si è fatto vivo di nuovo e ci siamo messi a discutere della questione al tavolo …

Ci incontravamo al “Nazionale” – un posto molto carino – c’erano anche delle cameriere gentili, che ogni tanto potevano servirci in prestito.

Comunque, non mi offendevo quando lui spariva. Mi ricordo una conversazione fatta con lui. Andavamo dal set Andrej Rublev, tra Susdali e Valdimir al laghetto era costruito un palco con le pallia: accanto c’era l’acqua, quindi le macchine dei pompieri potevano facilmente ricaricarsi per provocare la “pioggia”.  Allora siamo andati lì a girare. Dopo un paio di giorni, quando abbiamo finito, il tempo è diventato brutto, l’autista si è ammalato e sono stato costretto a sedermi al volante del ZIS, la precedente macchina dello stato, anche se non avevo la patente. C’era anche la mia moglie, tecnico del suono, Tamara Ogorodnikova, il direttore di produzione e Igor Petrov – in totale eravamo in sei.

La strada era nei campi, assolutamente scomoda, potevamo anche rimanere bloccati. È stata una sensazione di insicurezza, qualcosa di irritante, qualche conflitto, che Andrej ha detto: “Allora, il film è finito, tutti voi andate via ed io rimango a rispondere per tutto, per accettare le sofferenze. Ecco perché ho il diritto di essere esigente”.

Per me è stato scioccante, anche offensivo: il nostro lavoro era inseparabile. Poi varie volte mi sono ricordato di questo discorso e ho capito che aveva ragione: io giravo già un altro film, gli altri anche loro facevano diversi lavori, a lui invece gli è rimasto soltanto questa vita. E dopo tutto, il suo inizio d’autore era molto grande del nostro, anche se messo insieme.

Nella vita era nervoso, a volte era sospettoso, poteva lasciarsi influenzato da diverse cose, sia nel senso negativo, si doveva ridare il debito: allo schermo questo invece, non arrivava.

A qualunque cosa che era spinto per ottenere qualcosa, dall’alto o dal basso, riusciva trovare le forze, sia con dubbi e angosce per astenersi da questo.

Per esempio?

Modifiche non accettabili per Andrej Rublev o Begstvo mistera Mak-Kinli. Lo costringevano per fare queste modifiche. È andato varie volte nel ZK, e si è rifiutato in un finale.

Questo è che lo formava come personalità: la prima volta non si arrendeva, la seconda ne anche, poi ha capito quale è la sua salvezza – artistica. Andrej è riuscito prima, ma anche dopo a resistere.

Dentro il film Andrej non lavorava a caso, prendeva le sue decisioni abbastanza seriamente.

Mi ricordo quando siamo incontrati a Milano e lui mi ha detto: “Vadim, voglio farti vedere il materiale per il Nostalghia, andiamo a Roma!”.

“Andrej, non posso così semplice prendere e andare via!” – ho risposto io. E lui: “Voglio farti vedere, perché il lavoro dell’operatore è molto interessante”.

Gli hanno proposto tanti operatori, conosciuti in Italia, però lui si è scelto un ragazzo giovane, dopodiché ha visto i suoi lavori.

Quando ho guardato il film, allora ho capito: probabilmente il lavoro dell’operatore non è così perfetto come nel Sacrificio, però da un punto di vista romantico e dell’avvicinamento alla drammaturgia di Andrej, certo, lui aveva ragione. C’è un grande contatto con l’idea del progetto.

Vadim Ivanovich, perché non ha più continuato a lavorare con Andrej Arsenjevich, non Le dispiace per questo?

È difficile, c’erano tanti motivi.

Mi dica da un punto di vista professionale se c’erano.

Per esempio, nel Zerkalo c’era un’idea di riprendere con la camera nascosta la madre di Andrej, Maria Ivanovna, in un contesto filmico. A me questo non è piaciuto, ero contrario. C’erano anche altri motivi; o forse eravamo stanchi uno dell’altro. Più tardi ci siamo avvicinati di nuovo, siamo tornati alla rapporto precedente. Ed anche se non c’erano delle occasioni per comunicare, quando ci incontravamo brevemente si aveva lo stesso rapporto fiducioso e amichevole. Del incontro a Milano, l’ho nominato già.

Quello che rimpiango invece … ecco, ho guardato di nuovo Zerkalo e capivo perfettamente Andrej.  Forse mi dispiace … Certo, l’ho potevo fare anch’io – conoscevo tutti i motivi intimi di Andrej. Non ha più fato i film con gli operatori, si diceva che da allora, guardava nella camera, e a lungo.

Comunque penso, che tutti gli operatori hanno fatto così come voleva lui. Prendete qualsiasi dei nostri o quelli dall’estero, come Aleksadr Knyajinskij ed anche Nyukvista, tutti loro hanno dato il massimo nel lavoro con Tarkovskij. Ciò non toglie l’individualità di ciascun operatore, ma comunque nei film di Andrej  appare in modo diverso.

Il rimpianto invece, rimane il mio problema …