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Lo specchio, Tarkovskij

Posso affermare che studiando Tarkovskij mi ha cambiato la vita, il modo di vedere le cose, e mi riferisco alle immagini. Leggendo la biografia della sua famiglia, ho ritrovato una frammento della nostra storia. La storia dell’URSS che ha marchiato la vita di tutti noi …

Vorrei raccontare qualcosa di questo regista partendo dal suo film Zerkalo (Lo specchio – it), un film complicato, come lo era la sua vita.

Lo specchio è un film autobiografico, che narra la storia di Andrej Tarkovskij e della sua famiglia.
La protagonista – la donna e la madre nel suo dramma personale, cresce due figli senza il marito nel periodo della guerra, fa dei sacrifici, si umilia per poter portare avanti la sua “missione”. È un film sull’infanzia e sulla madre, che spiega la nostalgia per l’infanzia che ciascuno di noi porta nel cuore. Un film, di conseguenza, dedicato alla madre.
Lo specchio non è altro che una metafora che Tarkovskij ripete anche nel film Nostalgia. Una metafora che rispecchia la confessione, la memoria, lo stato d’animo. Un altro simbolo è quello dell’”acqua” – uno specchio che contiene la dimensione del tempo.
Non per caso incontriamo nelle inquadrature i pozzi d’acqua, le pozzanghere, frammenti di specchi per terra, sguardi della protagonista nello specchio.

«Lo specchio cerca di penetrare la giovinezza della vita, la vita al suo albore, anzi il mistero stesso del concepimento di una nuova vita: una condizione che la società contemporanea vive come patologica, come malattia, menomazione, e che è invece la grandiosa promessa di un “infinito possibile”», ha scritto Antonio Socci nel libro “Obiettivo Tarkovskij” (Edit, Milano, 1987)

Il colore bianco diventa un simbolo del film: come è stato sottolineato “Una bianca, bianca giornata”, titolo di una poesia sull’infanzia di Arsenij Tarkovskij.

«Lo specchio è come quel campo di grano saraceno che si stende davanti alla Casa delle Memoria di Tarkovskij: un immobile e tranquillo come un mare stabile viene imprevedibilmente percorso e attraverso dai “riflessi” di due improvvisi colpi di vento, ondate di sentimenti che alterano le coordinate dell’inizio, preannunciando qualcosa di non ancora visto (nella mente certo, ma non con gli occhi della cinepresa), portando con sé un elemento strano che “riempie” di vuoto avvertibile l’inquadratura, suggerisce un inespresso messaggio al quale non si può non chiedere conto», racconta Fabrizio Borin nel suo libro “Il cinema di Andrej Tarkovskij” (Jouvence, Roma 1989).

La donna, la madre, è l’elemento di apertura del film, predestinata alla solitudine e sacrifici. È eccezionale il modo come Tarkovskij traspone la figura della madre e della moglie nello stesso personaggio. L’attrice M. Terehova interpreta sia il personaggio della madre quando era giovane, sia quella della moglie alla stessa età. Lo specchio mette in scena due tempi diversi e una sola storia, una storia che si ripete.

«Al centro del film l’evento di una particolarissima nascita, che discretamente, sommessamente, riempie di stupore il giovane Ignat (il figlio). Sono le sequenze delle opere di Leonardo: il volto della Vergine de La Madonna col bambino e sant’Anna, il volto di Cristo dell’Ultima cena, la Vergine delle rocce … Una misteriosa maternità posta al centro di quella tumultuosa gravidanza del cosmo e della storia. “Un atto di ringraziamento alla madre” diceva dunque il regista. Ma che si tende dalla percezione della maternità originaria della terra e del tempo, alla misteriosa e dolce maternità redentrice di Maria. Da questa straordinaria maternità della Vergine gli elementi della vita sprigioneranno la loro autentica virtualità liturgica e sacramentale. In lei inoltre sono compiute tutte le maternità dei figli dell’uomo», aggiunge Socci.

Sappiamo che Andrej Tarkovskij aveva una profonda religione coltivata dalla madre, un credente in Dio che ha riflettuto su questo argomento in quasi tutti i suoi film. E come diceva il regista, che lui non ha paura della morte, perché la morte è la continuazione del nostro essere.

Come dicevamo, il film racconta due storie simile tra loro, uno specchio che si rispecchia nella propria immagine, sogni e ricordi dell’infanzia che nel film prendono forma sotto il colore di bianco e nero seppia.
Anche le scene del vento, rallentante nella fase di montaggio, esprimono lo scorrere del tempo, un’attesa infinita che supplica l’anima ad aspettare il ritorno della felicità.

«Per buona parte raggruppati al centro dell’opera, i filmati sono estrapolati dal livello della fantasia immaginativa attraverso una delicata ma rapida diminuzione della pressione magica del ricordo, facendo leva su due modificazioni interagenti. La madre (dopo la doccia) diviene – per la prima volta – la moglie e uno dei tanti specchi esistenti nel film non è più ambiguo volano per fuori campo poetici (ora si è in città e la madre e la casa di campagna sono solo un bel tramonto), ma si configura come semplice superficie riflettente unicamente il quotidiano.
Vale a dire il volto della moglie Natalia, indurito da una luce meno morbida di quella della dacia, mentre discute con la voce del marito/narratore – un fuori campo di assenza e non di creazione – a proposito della crisi del loro matrimonio, del futuro di Ignat […]
Le ultime immagini colgono la macchina da presa che sembra ritrarsi tra il nero del bosco lasciando nella luce della natura le persone che il cinema del ricordo ha saputo riportare all’apparenza. La memoria del viaggio familiare si è espressa completamente. Rimane per Tarkovskij quella dei percorsi spirituali, ma la cinepresa è già rientrata nella Casa dell’Anima, quello dello Stalker», conclude Borin.

Ecco un frammento del film: